7 Luglio 2022
Friend-shoring per riorganizzare le economie occidentali senza rinunciare alla globalizzazione e non penalizzare la tecnologia e lo scambio di conoscenze

Il termine “friend-shoring è stato usato lo scorso 13 aprile dalla segretaria al Tesoro americano Janet Yellen e da allora è diventato un paradigma nuovo sul quale si misurano le mosse delle economie occidentali. Quel “fare business tra amici” è presto stato interpretato come un campo sul quale far muovere anche le imprese, grandi o piccole che siano, e nella sua accezione più genuina non vuole dire rinunciare al valore della globalizzazione, bensì rivederlo in questi tempi scossi dalla guerra, in un impegno a lavorare con paesi simili, ma pur sempre con le regole e i valori condivisi dell’economia globale. Il capitalismo ha dimostrato di sapersi trasformare e adattare ai nuovi scenari geopolitici, e non può fermarsi nel 21esimo secolo, a questa considerazione è arrivata Oxford Economics, la società di analisi finanziarie britannica che ha anche previsto che le tensioni crescenti, la spinta al ‘decoupling’, al disaccoppiamento tra le economie dell’occidente da una parte e il blocco Cina-Russia dall’altra, si riverbererà soprattutto nel campo della tecnologia e nello scambio di conoscenze che hanno caratterizzato i progressi globali compiuti sinora.
Ma ci sono ampi margini per evitare un impoverimento se verranno stabiliti nuovi allineamenti portatori di opportunità alle imprese. Certo se prima le imprese si muovevano senza frontiere, adesso tornano i governi a stabilire i confini del friend-shoring, ma il suo opposto, ovvero l’offshoring negli anni ha sviluppato fenomeni che già prima del conflitto avevano mostrato la corda, come il decentramento delle produzioni da parte delle multinazionali verso paesi a basso costo di manodopera, con tanti economisti che teorizzavano la necessità di riportare a casa business dislocati all’estero. Per questo il discorso di Janet Yellen, al di là delle espressioni di nuovo conio, ha offerto una visione invocata da più parti di un ritorno a dinamiche industriali più rispettose del capitale umano interno. Le condizioni internazionali stanno accelerando una tendenza che era già in atto verso un’economia di prossimità ha detto Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere produttive “ma non è la fine della globalizzazione semmai è l’inizio di una nuova globalizzazione che premia la stabilità e l’affidabilità dei paesi nei rapporti economici e commerciali con gli altri paesi”.
Per questo Confindustria, ma anche i sindacati sono pronti ad una discussione comune con il governo, perchè oltre alle dichiarazioni di principio ci siano anche misure che sostengano i processi. Per riaprire le produzioni in Italia e in Europa vengono invocati supporti dal governo, per colmare il gap del costo della manodopera sui mercati del Far East, viene considerato cruciale ridurre la tassazione sulle imprese e una politica più decisa di sgravi fiscali: sono infatti proprio i regimi fiscali europei e i costi ambientali che hanno favorito la delocalizzazione dell’industria. Un segnale positivo, da interpretare come buon esempio è venuto dallo sforzo promosso dall’Unione europea di aumentare la produzione europea di semiconduttori, con la legge che stanzia 11 miliardi di euro che porterà questa produzione al 20 per cento entro il 2030 dall’attuale 10 per cento.
Gli investitori finanziari considerano fondamentale anche avere il pieno controllo delle proprie catene di approvvigionamento. Così come intesa strategica tra le istituzioni finanziarie; perchè Fmi e Banca mondiale parlino la stessa lingua va attuato un processo di riforma per affrontare le crisi geopolitiche in un quadro che può evolversi molto rapidamente. Motivo in più che ha fatto dire alla segretaria al Tesoro di Washington che è arrivato il momento di una nuova Bretton Woods, la famosa conferenza del 1944 che disegnò il sistema economico occidentale post bellico.