Skip to main content

Nell’evoluzione del Customer Journey la sfida dei brand è cambiare le proprie regole di engagement, assecondare l’economia delle piattaforme e la tecnologia invisibile

Il brand per come lo abbiamo conosciuto finora, anche lui sta vivendo una fase di trasformazione. I marchi non restano esclusi dal gran rimescolamento messo in atto dall’avanzamento dell’Intelligenza Artificiale, degli algoritmi e delle piattaforme digitali a livello consumer, ma l’insieme delle novità trascina cambiamenti sul modo di fare marketing del branding e della comunicazione. Un dato di fatto su cui si misurano gli operatori del settore è che già oggi nessuno si può adagiare sugli allori, anche i marchi iconici non possono più dare niente per scontato. La loyalty dei consumatori è messa alla prova dalle diverse opportunità nuove date dagli strumenti tecnologici di cui oggi si dispone, tanto che la provocazione dei marketer in alcuni casi è “meglio sparire per sopravvivere”. 

Gli esempi non mancano, come nel caso del rapporto con un chatbot virtual assistant, per sua natura fornisce risposte che non sono necessariamente coerenti con quello che il brand é a livello di identity e a livello di posizionamento. Di fatto può saltare l’intermediazione del marchio nel customer journey a vantaggio dell’aggregatore come può essere Amazon per far scattare quella che i pubblicitari chiamano platform economy, in cui per i brand diventa sempre più difficile andare a interagire direttamente con l’utente. La tecnologia invisibile, nelle mani di sempre più persone, sta smantellando i costosi programmi di brand building dei marchi, costruiti a suon di grandi campagne di advertising veicolate in tutti i modi possibili. Ciò non corrisponde all’idea di una fine del mondo pre esistente, quanto piuttosto ad un riposizionamento, in cui avere la capacità di comunicare la propria offerta in modo meno urlato di come avveniva in passato, quando ci si imbatteva in mega cartelloni pubblicitari, o in martellanti pubblicità, in tv e alla radio.

Sulla teoria dell’Invisible brand già due anni fa l’americano William Ammerman sosteneva che si è ormai entrati nell’era della personalizzazione di massa e lo ha segnalato più recentemente anche Kpmg: le aziende vincenti sono quelle che riescono oggi a confezionare valore esperienziale alla propria audience, usando strategie legate all’intelligenza artificiale e una solida data strategy. E secondo i dati del Politecnico di Milano in Italia il 56 per cento della grandi corporation ha ormai i suoi progetti di AI in fase di avviamento, con alcuni settori che primeggiano come banche e finanza (25%), manifattura (13%), utility (13%), assicurazioni (12%). E dagli studi emerge che l’intelligenza artificiale che funziona è quella che agisce sottotraccia, senza essere percepita dalle persone e i comportamenti digitali sono cadenzati dagli algoritmi che a livello maturo diventano una componente che che abilita al design automatizzato delle nostre esperienze in un ecosistema che per la sua ampiezza ingigantita accresce la possibilità di scelta.

Tra le altre teorizzazioni che giungono oltre oceano ci sono quelle di Margaret Mark e Carol Pearson autrici di un testo guida: L’eroe e il fuorilegge, la costruzione dei brand attraverso il potere degli archetipi”; loro sostengono che i marchi di successo di oggi sono quelli che riescono effettivamente a colpire in modo inconscio su un comune sentire e su modelli ricorrenti nella vita di tutti i giorni, basati anche su valori di condivisione e su una reputazione da costruire non soltanto attraverso la pubblicità, ma anche con eventi sociali e non esclusivi e anche a sfondo culturale, pubbliche relazioni, impegno filantropico. Una condizione nella quale i consumatori possono sentirsi parte di una stessa comunità di riferimento e non come dei semplici acquirenti da abbandonare un momento dopo.